Prefazione

di Giampiero Griffo [*]

Un nuovo approccio alla disabilità

I nominalisti medioevali erano convinti che per descrivere gli oggetti, le azioni e le persone esistesse la parola giusta, quella legata alla loro natura intrinseca. Questo approccio si basava sulla presunzione che gli oggetti, le azioni e le persone fossero immutabili e che bisognasse riuscire a trovare la parola esatta per descriverli in modo appropriato. Il loro approccio però non teneva conto del fatto che la descrizione si confrontasse con qualcosa in movimento, come la disabilità. Anzi, come dice la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite (CRPD), con un concetto, quello della disabilità appunto, “in evoluzione”.

In effetti per millenni le persone con limitazioni funzionali sono state gravate di uno stigma sociale negativo che le considerava indesiderabili, malate, da nascondere o segregare in luoghi speciali, di cui avere pietà, insomma un peso sociale, al punto che Hitler intendeva sterminarle perché inquinavano la purezza della razza umana, prima di tutto ariana 1.

Le parole che le hanno descritte o cominciavano con suffissi privativi (invalidi, inabili, incapaci, etc.) o erano cariche di connotazioni negative (zoppi, storpi, malformati, etc.). L’insieme di queste connotazioni negative si sono cristallizzate nel tempo in quel modello medico/individuale che attribuiva, anche sulla base delle conquiste della medicina e delle classificazioni delle malattie sviluppatesi nell’Ottocento, alle limitazioni funzionali delle persone l’impossibilità di vivere in società.

Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, sulla base dei movimenti di emancipazione, si sono sviluppate pratiche e concettualizzazioni che rifiutavano questo modello, proponendo letture diverse di come le persone erano state rese invisibili, segregate ed escluse. Penso al Movimento per la vita indipendente negli USA o alla definizione sociale della disabilità proposta dall’UPIAS2 nel Regno Unito3. Dal 1981, anno internazionale dedicato dall’ONU alle persone con disabilità, con il modello di handicap proposto dall’OMS (1980), poi seguito dalle Regole standard delle Nazioni Unite che applicavano le pari opportunità anche alle persone con limitazioni funzionali (1993), fino al modello bio‐psico‐sociale proposto dall’ICF, che identificava nella relazione tra ambiente e caratteristiche delle persone gli elementi facilitatori o ostacolanti la partecipazione, l’evoluzione dei modelli è stata progressiva.

Il salto di qualità è avvenuto nel 2006, quando l’approvazione da parte dell’Assemblea dell’ONU della CRPD dichiarava queste persone titolari di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali al pari degli altri cittadini e riconosceva che le barriere, gli ostacoli e le discriminazioni a cui erano soggetti rappresentavano violazioni dei diritti umani. Queste persone, che fino ad allora venivano descritte al massimo come persone svantaggiate (handicappate), si scopriva che venivano disabilitate proprio dalla società che non li accoglieva come gli altri cittadini, li considerava “speciali” e quindi li ignorava quando definiva le modalità di offerta dei servizi pubblici, li segregava in classi speciali e differenziali, li rinchiudeva spesso per tutta la vita in istituti a loro dedicati. Al massimo li trattava come oggetti di cui farsi carico per proteggerli. Questa situazione, che rendeva queste persone più vulnerabili di quanto fossero, durante la pandemia ha fatto emergere l’incapacità del welfare di protezione di tutelare i loro diritti, al punto che la commissaria all’eguaglianza dell’Unione Europea, Helena Delli, ha affermato che un carico sproporzionato di problemi era gravato su loro e le loro famiglie.

La CRPD afferma tra i principi guida a cui riferirsi “il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa”. Cioè queste persone sono parte integrante di tutte le società umane e devono beneficiare dei diritti e dello sviluppo di queste società, come indicano gli obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite.

La descrizione con parole appropriate di questa evoluzione fa emergere perché sia così incerto, e difficile da definire, chi sia la persona con limitazioni funzionali. La trasformazione è stata così rapida che ha messo in crisi concetti e parole tradizionali, attitudini sociali e responsabilità istituzionali.

La CRPD ci offre una prima definizione chiara: prima di tutto sono persone, quindi cittadini a pieno titolo; poi, usando la preposizione semplice con, che introduce diversi tipi di complementi indiretti, vuole sottolineare che solo a certe condizioni e su determinate attività la persona è disabilitata da fattori ambientali e sociali che non tengono conto delle sue caratteristiche. Quindi non si può dire che la persona è disabile sempre e comunque. Non è un caso che la CRPD non parla mai di disabilità grave, ma sottolinea che vi sono persone che “richiedono un maggiore sostegno” (preambolo, lettera j), proprio perché sono lo Stato e la società responsabili di garantire pari opportunità e non discriminazione.

Quanto ai tentativi buonisti di descrivere queste persone con neologismi, faccio un commento su due esempi: la definizione portatori di handicap è inesatta, in realtà le persone con disabilità sono ricevitori di handicap; quanto all’uso della locuzione diversamente abile, questa definizione cancella il carico di disabilitazioni, barriere, ostacoli e discriminazioni che la società ha creato e crea a queste persone. Poi, ad essere precisi, viste le tante differenze tra gli esseri umani, chi può dichiararsi “normalmente abile”? Quindi il termine può applicarsi a ogni essere umano.

Un altro elemento importante di questa rivoluzione concettuale e linguistica è il modo di affrontare e analizzare queste persone. Se ci si ferma alla limitazione funzionale, come accade nei sistemi di assessment dei benefici da assegnare, si impoverisce sostanzialmente la persona. Le persone sono fatte di tutte le loro caratteristiche, che permettono loro di adattarsi alle varie condizioni che vivono, di avere attitudini resilienti ai problemi che affrontano, di crescere nelle capacità di apprendimento ad abilitarsi a svolgere attività e compiti che devono e vogliono svolgere, partendo proprio dall’insieme delle proprie caratteristiche, sapendo coniugare strumentazioni tecniche e tecnologiche, sostegni umani e animali, e soprattutto essendo capaci di autodeterminarsi nelle forme consone ai propri desideri e aspirazioni. In altre parole tutte le persone hanno una propria diversità funzionale, derivante da capacità fisiche e cognitive, da attitudini e talenti, da desideri e ambizioni di vita: ogni persona ha un suo modo di funzionamento che mescola tutte le caratteristiche delle persone in una maniera plasmata anche dall’ambiente di vita e dagli stimoli emotivi, culturali ed esperienziali che vive. È partendo da queste qualità proprie a tutti gli esseri umani che bisogna partire per fornire quegli accomodamenti ragionevoli di cui parla la CRPD in tutti i campi della vita. Chi sono i maggiori esperti in questo ambito? Sono le stesse persone con disabilità che non sono oggetto di intervento deciso da altri, ma sono soggetto del cambiamento delle conoscenze e attitudini sociali, perché il loro sguardo e i loro saperi producono innovazione in coloro che hanno difficoltà a trattarli nella maniera appropriata.

Infine, a concreta indicazione di questo lavoro egregio dell’Agenzia delle Entrate, se l’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinea che nell’arco di tutta la vita ogni essere umano ha vissuto, vive o vivrà una condizione di disabilità, il termine più corretto da contrapporre alle persone con disabilità è quello usato negli Stati Uniti dai gruppi più radicali, cioè di persona non ancora disabile. Questo lavoro dell’Agenzia delle Entrate si configura come il primo esempio di un grande ente pubblico che decide di svolgere un’azione di informazione corretta sul tema dei linguaggi appropriati da usare quando si parla di e con le persone con disabilità, che coinvolgerà tutti i 30.000 dipendenti dell’Agenzia. È una buona pratica realizzata in maniera efficace e competente, con una metodologia semplice e chiara, da diffondere nelle Amministrazioni Pubbliche, anche attraverso canali istituzionali.

Anni fa sottolineavo che le parole sbagliate sono come pietre tirate contro i diritti e le persone. Questo lavoro contribuisce a correggere linguaggi spesso obsoleti e stigmatizzanti, rendendoli leggeri e inclusivi.

(*) Coordinatore del Comitato tecnico‐scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità istituito dalla Legge 3 marzo 2009, n. 18, di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), componente del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International) e membro del board dell’European Disability forum. Ha fatto parte della delegazione italiana che ha definito e poi approvato la CRDP.