Premessa

Ogni giorno usiamo le parole, ma non sempre siamo consapevoli del modo in cui lo facciamo e soprattutto di come può essere percepito quello che diciamo. Se le parole sono il fondamento delle relazioni, quelle usate in modo distratto o approssimativo possono diventare un limite, escludere oppure offendere. Ma la parola è anche conoscenza, possibilità e accoglienza. In una società che aspira alla positiva convivenza delle differenze su un piano di pari dignità e opportunità, diventa dunque importante l’impegno a comunicare meglio e a riappropriarci del senso delle parole, delle loro implicazioni, della loro “portata comunicativa” 4. Perché il linguaggio non si limita a fotografare la realtà, ma ne condiziona la percezione e la rappresentazione e può incidere sui nostri pensieri e le nostre azioni, veicolando e alimentando pregiudizi inconsci che poi guidano le nostre scelte e decisioni. Non è quindi una casualità se le parole usate per parlare di disabilità sono in continua evoluzione. Del resto, la stessa definizione di disabilità è negli anni profondamente cambiata.

Come spiegava Tullio De Mauro 5 nell’ambito di un’inchiesta su quali siano i termini corretti per indicare la disabilità 6, l’intero campo semantico è in movimento nell’uso comune perché lo è ancora a livello specialistico internazionale, come dimostra il succedersi di classificazioni e riclassificazioni 7.

Ciò ha portato al proliferare di vari termini che si riferiscono alle persone con disabilità, che non sono o non sono più avvertiti come corretti: diversamente abile, inabile, portatore di handicap o, ancora, handicappato, invalido.

Il motivo per cui continuiamo a cambiare le parole attorno alla disabilità è legato soprattutto alla connotazione negativa che esse, nel corso del tempo, vengono ad assumere, al loro precoce logoramento. Anche i termini nati con le migliori intenzioni si sono trasformati nell’uso in un insulto o in un’offesa 8, ed ecco che “questo campo semantico [ci appare come] un campo di battaglia, dove antiche ottiche, impastate di ignoranze e pregiudizi, si scontrano con nuove conoscenze e sensibilità, con nuove esigenze di scienza, di vita sociale, di umanità” 9.

Anche l’Accademia della Crusca, nel trattare il tema del linguaggio usato intorno alla disabilità, fa notare che è “dai primi anni Settanta che termini come spastico, mongoloide, cerebroleso, ma anche minorato, infelice, fino ad allora usati senza troppe restrizioni per indicare persone affette da gravi deficit fisici o psichici, sono stati avvertiti come inadeguati rispetto all’aggiornamento del dibattito scientifico e sociale, e hanno quindi progressivamente lasciato il posto prima all’iperonimo handicappato (la cui sfera semantica poteva includere situazioni molto diverse fra loro, rischiando di veicolare un’idea di omogeneità artificiosa) e poi, ma solo in certi registri, a portatore di handicap” 10.

Si continuano dunque a cercare e a succedere sinonimi, in Italia più che altrove, e nel mare magno delle parole o locuzioni esistenti sul tema si fa fatica a capire quali usare.

Qual è, allora, il modo migliore per parlare di disabilità?

Non esiste una risposta univoca e valida in tutte le circostanze, “come sempre accade quando si trattano argomenti che toccano non soltanto questioni terminologiche, ma anche (e soprattutto) sensibilità individuali o collettive” 11.

Proviamo comunque a fare un po’ di chiarezza guardando all’evoluzione del concetto stesso di disabilità, partendo sempre dal presupposto che la ricerca delle parole da usare deve accompagnarsi al quotidiano impegno a rimuovere le barriere non solo culturali, ma anche fisiche, economiche e sociali che impediscono alle persone di beneficiare delle stesse opportunità.